lunedì 7 novembre 2016

IL MIO LAVORO




Il mio è uno di quei lavori…


Uno di quei lavori che quando dici cosa fai la gente storce il naso.

Io lavoro nell'ufficio recupero crediti di una banca. Non l'ho esattamente scelto: come tante cose nella vita è capitato. È stato, a suo tempo, il modo per ottenere il trasferimento nella mia città e smettere di fare il pendolare in una filiale a 100 chilometri da casa.

Se pensate che io sia un marcantonio muscoloso che va in giro a minacciare la gente con una mazza da baseball siete fuori strada. Niente di così "pulp". Quelli sono i metodi dei "cravattari", peraltro indubbiamente più efficaci dei nostri. Qui ci muoviamo in modo meno coreografico. Dall'iniziale sollecito, ai tentativi di trovare un accordo transattivo, per arrivare all'avvio di eventuali azioni legali col conseguente  corollario di pignoramenti, fallimenti, cause passive in cui è il cliente a far causa alla banca e via discorrendo. Insomma, sono qualcosa di meno di un avvocato, qualcosa di più di un impiegato amministrativo (anche se poi la banca mi paga come un impiegato, ma questa è un'altra storia).

Per quanto mi riguarda, il problema più grosso nel mio lavoro è la sera, quando torno a casa e mi guardo allo specchio. Il problema vero, cioè, è sentirmi a posto con me stesso.

In realtà, alla fine, come ogni lavoro anche questo si sostanzia in gran parte nel rapporto con altre persone: i clienti/debitori, gli avvocati, i colleghi. Ed è su questo piano che, come ogni altro lavoro, anche questo si può fare in modo decente o indecente. Si può essere freddi ed efficienti, come sogna la banca, o empatici e collaborativi, come sognano i debitori. Oppure un ragionevole mix delle due cose.

Poi ti capitano le giornate come oggi. Che non sono neanche tanto infrequenti, purtroppo.

Fissi uno dei tanti incontri della settimana e dall'altra parte del tavolo, accompagnato dal suo avvocato, siede un uomo, un piccolo imprenditore che ha combinato pasticci con la sua società, oggetto della visita della Guardia di Finanza che ha trovato tutta una serie di irregolarità e, di fatto, gli ha bloccato l'attività.

Ma non è questo il punto. Non mi interessa se il tizio è un furbacchione "beccato" dai finanzieri o, come lui proclama, un perseguitato da uno Stato ottuso che non capisce le difficoltà in cui la crisi economica ha precipitato gli imprenditori. Io non sono qui per valutare gli uomini col mio piccolo e impreciso metro di giudizio. Per me non ci devono essere "buoni e cattivi". Io devo cercare di dare le stesse opportunità a tutti.

Il punto è un altro. Un mese fa a questo uomo dalla faccia cadente è morto un figlio di 20 anni, che si è schiantato con la macchina, di notte, di ritorno da una serata con gli amici.

Ecco. È qui che il mio lavoro diventa davvero complicato. Si discute di numeri, di possibili ipotesi transattive, ma è impossibile farlo senza vedere come gli occhi di quest'uomo siano opachi, spenti. Ha una famiglia, ha una moglie distrutta, ha altri figli, per cui è costretto a venire qui stamattina, a incontrare me, a parlare di debiti e di soldi. E io che siedo dall'altra parte del tavolo, in questo momento sono la banca, sono la faccia del "mostro" cieco e sordo che presta i soldi, ma poi li rivuole alle scadenze pattuite, non importa cosa sia successo nel frattempo.

Credo che sia qui che persino un lavoro come il mio, può essere fatto in modo decente o indecente. Non solo e non tanto nel senso di tentare di trovare una soluzione che sia percorribile per il debitore, senza penalizzare eccessivamente gli interessi della banca (cosa che non potrei fare neppure volendo, visto che le decisioni vengono prese da altri, altrove, nella mitica "Direzione Centrale", per intenderci), quanto invece nel tentativo di non ridurmi a un impiegato che tratta con un debitore, ma sforzandomi di essere invece una persona che parla con un'altra persona.

Può sembrare una cosa senza valore, visto che, alla fine, al cliente/debitore interessa trovare una soluzione alla sua situazione drammatica. Invece anche questo conta, ne sono convinto. Perché la vita è fatta di relazioni, perché a parità di esborsi economici la rabbia può gonfiarsi o sgonfiarsi, gli avvenimenti si possono vivere con maggiore o minore frustrazione. Trovarsi di fronte un burocrate infastidito e scostante non può essere la stessa cosa che trovarsi di fronte a qualcuno che prova a darti una mano.

Se la soluzione c'è ben venga. Se non c'è - e molto spesso nel mio lavoro non c'è - per lo meno si uscirà da questo posto senza la sensazione di aver ricevuto l'ennesima umiliazione, l'ennesimo schiaffo da parte della vita bastarda.

Nonostante io sia, per carattere, timido e poco espansivo, quando entro nella piccola stanza claustrofobica in cui incontriamo le controparti, ce la metto tutta perché nei miei occhi e nella mia voce ci sia qualcosa che comunichi un filo di speranza e, comunque, per fare in modo che chi viene qui non si senta giudicato.

Il risultato di questo piccolo/grande sforzo è che, per assurdo, ho in media buoni rapporti con le persone che incontro. Persino quando, alla fine, mi trovo a dover comunicare degli sconfortanti "mi dispiace, non ci sono soluzioni, la banca ha deciso di procedere con le azioni esecutive".

Il mio è uno di quei lavori…

Specie in certi giorni in cui incontri uomini con gli occhi opachi, spenti, cui la vita ha chiesto davvero troppo.

Per l'uomo che ho incontrato oggi non penso ci sarà una soluzione positiva. E comunque, anche se ci fosse, non cancellerebbe il vuoto e il dolore che si porta e si porterà dentro per il resto della vita.

Io e quell'uomo alla fine ci siamo guardati e ci siamo stretti la mano. Una stretta vera, forte.

Può essere niente, lo so. Però è quello che posso fare e, quindi, che devo fare.

Perché io, la sera, non dimenticatelo, ho sempre la mia faccia che mi aspetta dall'altra parte dello specchio.


PER PAGARE C'E' SEMPRE TEMPO (FORSE...)