venerdì 25 ottobre 2013

EXTRATERRESTRE VS COMMERCIALISTA

Cosa penserà la gente di te?
Che sei un ebete. Chiaro. Difficile dargli torto.
Che vuoi pensare di uno che si estranea di continuo, guarda in giro, che magari, seduto al tavolo in pizzeria con una compagnia di amici, a un certo punto si perde per cinque minuti buoni a giocherellare col tovagliolo, fissando incantato, con espressione non proprio intelligentissima, i riflessi del lampadario sul bicchiere?
Un narcolettico, uno che soffre di crisi “a tempo” di autismo, che entra ed esce da un mondo parallelo, tipo Le cronache di Narnia, e senza neanche bisogno di un armadio in cui scomparire.
Tua moglie ci è abituata. Ti siede accanto a quel famoso tavolo di pizzeria e chiacchiera tranquillamente a destra e a manca, senza far caso al “coso” che gli vegeta vicino. Se ha bisogno ti interpella. Lo sa che sei abbastanza reattivo. Nel giro di uno o due secondi il tuo cervello torna a funzionare in modo normale, gli occhi si risintonizzano su questo universo e sei in grado di rispondere in modo il più delle volte sensato. E comunque sei diventato bravissimo a fare finta. Hai una buona scorta di frasi pronte, valide per tutte le occasioni tipo: “eh, beh…”, oppure: “del resto è così!”. Le volte poi in cui “atterri” troppo bruscamente, senza riuscire a ricostruire l’argomento della conversazione (che magari è cambiato quattro volte dal momento in cui hai perso contatto con il mondo), ti nascondi dietro un sorriso timido e gentile.
E’ una buona strategia. Quando sorridi in modo timido e gentile è difficile che ti diano un cazzotto in faccia. Per lo meno non a un tavolo di pizzeria.
Poi metti insieme un paio di commenti dei presenti, leggi il tono della conversazione, capti l’atmosfera generale e, tempo qualche minuto, riesci a tirare fuori un battuta neanche tanto malvagia. Gli altri ridono e si convincono che no, dai, in fondo non è così suonato. Un po’ ebete, ma non del tutto andato via di testa. Insomma ti salvi in corner.
Quello che alcuni proprio non riescono a capire è come faccia uno come te a scrivere dei libri.
Non capiscono che con un lavoro, una famiglia e un po’ di interessi sparsi, se riesci a scrivere dei romanzi è proprio per questo: perché non lo fai solo quando, nel silenzio della tua cameretta, siedi davanti al computer, ma perché scrivi invece anche dentro la testa, spesso, spessissimo, pure in mezzo al casino, persino al tavolo di una pizzeria, tra un commento su quanto è ingrassata la tale attrice e l’arrivo della “scamorza affumicata e speck” che hai ordinato. Insegui le tue storie, le giri e le rigiri, le rivolti come farina e acqua nel paiolo che, un po’ per volta, diventano polenta. Non esploderebbe mai un bel sole giallo e fumante sul tagliere di legno se non fosse stato rigirato a lungo e con amore nella pentola di rame. E così fai tu. Ogni tanto varchi il confine ed entri in quella stanza segreta dentro la testa in cui conservi le tue storie.
Ce ne sono tante, tantissime, scaffali e scaffali di storie, la maggior parte delle quali non sai nemmeno che sono lì. Le conservi senza averne consapevolezza. Sono tutte le storie lette nei libri, viste nei film, ascoltate dalla voce di mille persone incrociate nella vita. Nulla va perso, neppure quello che sembra scordato, neppure quello che non si sa più da dove venga e come ci sia arrivato su quegli scaffali. Un archivio immenso da cui si può tirar fuori di tutto. Come un’enorme scatola di Lego, con dentro pezzi spaiati provenienti da mille scatole e confezioni diverse. Una volta sono stati aerei, astronavi, macchine, case, ruspe, carri armati. Ora è tutto mescolato insieme. E’ difficile ritrovare in quel casino i pezzi necessari per rimettere insieme, per esempio, l’astronave di Guerre Stellari, ma a te non importa rimetterla insieme. Tu non sei memoria storica che ripropone quello che ha sentito. Tu sei uno scrittore. Tu peschi a piene mani in quel caos per inventarne una nuova di astronave. Un’astronave con ruote di macchinina usate come originali cannoni laser e la finestra di una villetta al posto della cabina di pilotaggio. Oppure una macchina da corsa con gli alettoni di un caccia bombardiere. Oppure una casetta senza porta da cui si entra da una botola sul tetto, come nei Pueblos di certe tribù di indiani centroamericani, prima che i conquistadores pensassero bene di spazzarli via come formiche fastidiose.
Sarà per questo lavorio frequente e sotterraneo che ti scordi date e compleanni, ombrelli e visite mediche, che salti clamorosamente uscite della superstrada e che a volte giri come un rabdomante, con le chiavi in mano, alla ricerca di dove hai parcheggiato la macchina?
Forse. O magari sono i primi sintomi dell’Alzheimer. Chissà.
Non sei proprio contentissimo: anche a te certe volte piacerebbe essere di quelli efficienti, padroni delle situazioni, organizzati, attenti, con tutto sotto controllo. Guarda ad esempio il marito dell’amica di tua moglie che ti siede di fronte al tavolo della pizzeria, che tiene banco, che sa tutto lui e quando non sa… sa lo stesso. Commercialista, con la BMW, con l’iphone, che gioca a calcetto (naturalmente tu sei una pippa a calcetto, inutile sottolinearlo), che conosce tutta la città “che conta”, che sta entrando in politica (e, comunque, fa i comizi anche quando parla di dove andare in vacanza, per cui…), che quando gli hanno detto che scrivi, l’unica cosa che ha avuto interesse a chiederti è “ma si guadagna bene?” e quando ha capito che non si guadagna una cippa ti ha cancellato dal campo visivo come se davanti a lui si aprisse una terrazza sul Gran Canyon. Da scommetterci che lui non si fa mai beccare con l’espressione beota a pensare ai fatti suoi, che non ha tempo da perdere a ragionare per un’ora se il protagonista debba avere 13 o 15 anni, con tutti i pro e i contro narrativi di questa scelta (sarà diverso il linguaggio, sarà diverso il punto di vista, sarà differente la libertà di azione…), che lui le uscite della Superstrada non le salta mai (del resto la sua BMW ha di sicuro il navigatore satellitare incorporato).
Sì, insomma, è scontato che non ti piacerebbe essere “esattamente” come lui, visto che coi tipi come lui non hai mai legato, fin dalle superiori (eh sì, spesso si capisce già alle superiori “chi è destinato a diventare cosa”), ma vorresti almeno avere una fetta della sua efficienza, del suo controllo sulla sua vita e sul mondo circostante. Essere meno sconclusionato, insomma.
Arrivano le pizze. Quella del commercialista per prima, ovviamente. Comincia a mangiarla senza aspettare “sennò si fredda”, ovviamente. La tua arriva per ultima, ovviamente, solo dopo che, al terzo timido tentativo, sei riuscito ad attirare l’attenzione del cameriere che, impietosito, è andato a perorare la tua causa presso il pizzaiolo, che si scusa per il ritardo e ti fa arrivare la tua “scamorza e salmone affumicato”. Tu avevi chiesto “scamorza e speck”, ma siccome è tardi e odi fare aspettare gli altri la prendi senza battere ciglio, ringrazi persino il cameriere per il suo poco accorto interessamento e ti sforzi di mangiarla a velocità supersonica, ustionandoti la lingua e macchiandoti la camicia. Tutto con un boccone solo.
Ovviamente il commercialista, che la sua di pizza l’ha finita da un pezzo e sbevazza un amaro fatto con ottocento erbe, probabilmente le più puzzolenti del pianeta, che ammorba l’ambiente circostante cambiando il sapore di quello che mangi (pizza scamorza, salmone e ginseng?), con la sua mente attenta ai dettagli, ricorda perfettamente che avevi ordinato una cosa diversa e ti chiede perché ti stai mangiando quella “schifezza” che non è quella che avevi chiesto? E te lo chiede, ovviamente, con un tono di voce sufficientemente alto da far interessare alla vicenda anche il tizio che guarda le macchine nel parcheggio. Tu dici che non fa niente, che ti piace anche così, ma hai non solo la faccia ma persino i risvolti della giacca rossi di vergogna, per cui risulti molto poco credibile.
Arriva il conto. Il commercialista lo acchiappa, annuncia l’ammontare al popolo e incita tutti a “cacciare” la propria quota. Tu provi a fare la divisione a mente, anche se pure in matematica sei sempre stato una pippa (quasi peggio che a calcetto), ma il commercialista batte tutti sul tempo facendo la divisione con l’iphone.
Si paga, si recuperano borse e giacconi, ci si avvia verso l’uscita, ci si saluta, si va ognuno verso la propria macchina.
Tu prendi le chiavi della tua e…
Tua moglie scuote la testa, rassegnata, poi ti prende sotto braccio e, senza dire niente, ti fa ruotare nel senso opposto a quello in cui ti stavi dirigendo e ti guida dove avete parcheggiato.
Mentre fate la strada di casa ti senti un po’ depresso.
<Che tipo il marito di Claudia…> dice a un certo punto tua moglie.
Il marito di Claudia è il commercialista.
<Eh già… uno di quelli che ha sempre tutto sotto controllo eh?> dici mogio mogio.
Lei ti guarda sorpresa.
<Tutto sotto controllo? Ma che dici! Ma se lo sanno tutti che è fallito un paio di volte e che non è vero che è un commercialista! Manco la macchina è sua, che l’hanno dovuta intestare a Claudia per non farla pignorare. Poveretta. E’ lei che lo mantiene. Io non ho mai capito perché non lo manda a cagare…>
Nella penombra che regna nell’auto, mentre attraversate i viali quasi deserti della città ormai immersa nel sonno, ti si apre lentamente sul volto un grosso e, diciamolo, un po’ perfido sorriso.
Che resta lì per qualche minuto, ad aleggiare.
Fino a quando tua moglie, con tono neutro, senza nemmeno sospirare, ti annuncia che hai appena saltato il bivio che porta a casa.


YAAAAAAAHHHHHHH!!!!!


martedì 15 ottobre 2013

A VOLTE IO

Ho conosciuto notti in cui non basta il sonno a dormire e si resta svegli a contare pensieri molesti, che ronzano nelle tempie come mosconi.

Ho conosciuto paure e tentazioni e in molte sono caduto rompendomi gli occhi e la bocca e perdendo ombrelli, orologi, ricordi e dignità nella caduta.

Sono stato eroico e vigliacco, sono fuggito e son rimasto, ho vinto e (più spesso) perduto, mi sono perdonato e (più spesso) odiato. Insomma, come molti, non mi piaccio, ma mi sforzo…

Consapevole delle mie debolezze (che è la mia unica forza) ho navigato in acque impervie, ribollenti di schiuma, inganni, rabbia e trabocchetti e ancora navigo, a volte a vista, a volte col radar del buon senso, a volte con la follia dell'attimo, a volte con la stanca disillusione dei vecchi, che salva dai grandi errori, ma è come essere già morti…

Non ho coraggio di puntare il dito e non cesello pagliuzze negli occhi altrui, perché come unico dono ho quello di vergognarmi delle travi che ornano i miei.

A volte io vorrei abbracciare, ma non sono mai stato bravo a farlo (magari l’altra pensa… magari l’altro crede…) e allora non abbraccio e resto lì a sorridere da lontano come il più cretino dei cretini… E probabilmente lo sono.

A volte io ho la presunzione di capire, di avere antenne più potenti e occhi a raggi X portentosi (nonostante i tic nervosi…) e orecchi e cuore, ma soprattutto cervello… E magari a volte è anche vero, ma spesso non lo è, e comunque non è così importante e anzi, magari, non serve a niente…

A volte io vorrei dar consigli, specialmente quando incrocio sguardi gravidi di lacrime represse, quando ascolto frasi che tagliano e fanno male. Ma poi penso " per dire cosa… per aiutare come…" 

E però bisognerebbe almeno saper dire: "ti voglio bene!"

A volte io vorrei mettermi a correre e correre e correre, per far capire che è importante anche saper scappare, che se si vuol sopravvivere ogni arbusto è buono per potercisi attaccare, che se non si vuol perdere tutto si deve perdere qualcosa, che a volte non c'è vittoria possibile ma solo modi per diminuire le perdite, che l'orgoglio uccide più di tutte le pistole del mondo…

A volte io vorrei saper fissare e ipnotizzare e spegnere i pensieri molesti in quelle teste che non riescono a dormire, fargli vedere le cose belle che hanno dentro, che hanno intorno, e fare in modo che gli basti, che smettano di essere infelici perché non possono avere anche il resto, quello che non serve, che fa male, ma che, per assurdo, non fa vivere… fa impazzire…

Solo che anche io ci casco, e questo mi toglie forza nel parlare. Ci casco perché ognuno prima o poi ci casca e cerca come un disperato quello che non serve.

E qualche volta riesce persino ad afferrarlo.

Ma ecco che appena raggiunto sfuma, sparisce, svapora e allora (purtroppo solo allora) si capisce che non era quello l'importante, che il gioco è tutto nel desiderio, nel sogno, nel cercare quel qualcosa che non è né "ora" né "adesso"… E ci si ritrova all'improvviso vuoti, a desiderare che tutto non sia vero, non sia mai stato…

Di non aver sbagliato.

Ecco perché a volte è meglio correre e correre e correre, meglio salvarsi sotto un sasso, fingersi morti, fare i pazzi, urlare nella notte tutto il male, ma scappare, scappare da noi stessi, disertare…

A volte io vorrei il mondo intero, vorrei le spiagge e le vallate, vorrei il denaro e i primi piani, vorrei tutte le donne che incontro e ballerine e nani…

Altre volte vorrei solo silenzio. E poter essere piccolo fino in fondo.


Poi certe notti vorrei solo addormentarmi, finalmente, senza più pensieri.


... mi sa che ho fatto un'altra cazzata...

lunedì 14 ottobre 2013

IN FUGA

I passi rimbombano sul selciato. Respiri affannosi.
L’inseguitore guadagna terreno. Chi scappa sa che è ormai è finita. Eppure continua a correre e continuerà fino a quando le gambe glielo consentiranno, pur sapendo che non può sfuggire.
L’istinto prevale sulla ragione.
Ancora qualche istante di libertà prima di essere catturato. 
Ancora un metro. 
Ancora un respiro affannoso.
Ancora… 
L’enorme mano si chiude sulla sua spalla, bloccandolo senza scampo.
“Ma sei scemo?”
L’uomo è rosso dallo sforzo e incazzato come una iena.
“Quante volte ti devo dire che non devi lasciare la mano e correre via? E se finivi sotto una macchina?”
Paf! Parte lo scappellotto.
Il piccoletto con la maglietta di Sponge Bob piange e trotterella di malavoglia con la manina imprigionata nella manona del papà.
Ma appena gli capiterà l’occasione ci riproverà.

Oh, se ci riproverà!

Liberoooo!!!

venerdì 10 maggio 2013

StoryBox - tutta un'altra storia!

Ebbene sì, in qualità di finalista del Torneo "Io Scrittore", avendo pubblicato un ebook con GEMS, sono stato "reclutato" tra gli autori che danno vita con le loro storie al sito StoryBox.
Una specie di allegra cooperativa di scrittori- alcuni alle prime esperienze, altri un po' più "scafati" - in cerca di visibilità.
Mi sembra una bella iniziativa.
Ma, soprattutto, ci sono alcuni scrittori venuti alla ribalta con il Torneo che sono davvero bravi!

(non dimentichiamo, del resto, che "Io, Cate" uno dei romanzi finalisti dell'edizione 2011 di "Io Scrittore", dopo la pubblicazione in ebook, è stato pubblicato su carta da Fazi ed è quest'anno tra i 12 finalisti del Premio Strega...)

Questo il link all'ultimo racconto che il sottoscritto ha "postato" su StoryBox:

http://storyboxonline.wordpress.com/2013/05/10/ultima-generazione/#more-1157



mercoledì 10 aprile 2013

TERRONI

Sto finendo di leggere TERRONI, di Pino Aprile (Piemme Edizioni).
E sto finendo di incazzarmi.
Di cosa parla TERRONI? Della Questione Meridionale. Vista dalla parte dei meridionali.
Piccola precisazione: io sono nato in Veneto. Non parlo da meridionale. È da italiano che mi sento incazzato.
Pino Aprile scrive cose che in qualche modo avevo già letto e sentito, ma in maniera episodica, magari nel contesto di altri discorsi. Leggerle invece tutte in fila, in un libro dichiaratamente provocatorio  (ma ben documentato), dedicato proprio a questo argomento, è un’esperienza choccante, dolorosa.
Volendo sintetizzare fino all’osso, cosa dice Aprile?
Risponde fondamentalmente a due domande.
Prima domanda: è vero che il sud è sempre stato arretrato rispetto al nord?
Se guardiamo i dati ufficiali sulla ricchezza pro capite, la capacità produttiva e la realtà economica alla data dell’Unità d’Italia, la risposta è NO. Nel 1860 il sud NON era più povero e arretrato del nord. La Campania, in particolare, era più ricca e progredita della Lombardia e del Piemonte (Napoli era la terza città d’Europa e Milano e Torino seguivano a diverse incollatura di distacco) e regioni settentrionali come il Veneto o la Valle d’Aosta se la passavano decisamente peggio della Puglia o della Sicilia. Perciò l’affermazione, generalmente data per scontata, che il Sud si trascinerebbe un’atavica e connaturata incapacità di progredire economicamente, è una balla. Una bugia che ai leghisti piace ripetere. Ma priva di fondamento. Una cazzata, appunto.
Seconda domanda: visto che dopo soli 30 anni dall’Unità d’Italia il nord aveva fatto un significativo salto in avanti, mentre il sud era rapidamente precipitato in una situazione di diffusa povertà (infatti solo intorno al 1880 comincia il fenomeno, prima praticamente inesistente, dell’emigrazione), CHI è il responsabile dell’impoverimento del sud e, quindi, della cosiddetta Questione Meridionale? La risposta è: IL NORD.
Chiunque guardi ai dati di fatto e vada a documentarsi seriamente su cosa è successo a partire da quegli anni, non potrà che allargare le braccia e dire: “porca miseria… è vero!”
Badate bene, non sto dicendo che nel 1860 il sud fosse ricco, evoluto e illuminato e il nord povero e retrogrado; infatti i vari stati e staterelli italiani preunitari erano tutti in una situazione di netto ritardo economico rispetto a paesi come Regno Unito e Francia: Se però ne volessimo individuare uno messo un po’ meglio degli altri, questo sarebbe sicuramente il Regno delle Due Sicilie e non il Regno Sabaudo.
Chiaramente bisogna avere la mente sgombra da pregiudizi razzisti e da convinzioni politiche preconfezionate. Quindi per moltissimi questo salto culturale risulterà impossibile.
Lo so che i libri di storia raccontano tutt’altro. Ma i libri di storia sono scritti dai vincitori e nel 1860 - nonostante le favole tramandate dalla retorica Risorgimentale – quella che è stata chiamata Unità d’Italia è stata in realtà una guerra di conquista che il Piemonte dei Savoia ha fatto per mettere le mani sulle ricchezze del Regno delle Due Sicilie, governato dai Borboni.
Il Piemonte e il nord hanno vinto. Il Piemonte e il nord hanno decretato cosa dovevano (e cosa non dovevano) raccontare i libri di storia.
Cosa c’è di solito dietro le guerre? I soldi, l’economia! Bravi, risposta esatta, vedo che siete ragazzi svegli.
Nel 1860 il Regno Sabaudo era in rovina: le casse dello stato erano prosciugate e l’equivalente di quelli che oggi chiamiamo titoli di stato, emessi dal Piemonte, valevano una pipa di tabacco (erano sotto il loro valore nominale) e non li voleva nessuno. Invece (toh, sorpresa!) quelli emessi dal Regno delle Due Sicilie valevano più del 120% del loro valore nominale, al punto che persino il Regno Unito ne faceva incetta. Per questo il Piemonte cavalca le aspirazioni unitarie di una fetta (a ben vedere ridotta) della nascente borghesia e degli intellettuali della penisola e si attiva per risolvere i propri guai. Mancano i soldi? Il Sud ha riserve auree e denaro circolante ben superiori? Perfetto! Andiamo a prenderle!
Garibaldi? Beh sì, serviva anche qualcuno che guidasse la spedizione militare. Ma in questa storia conta molto più la Massoneria che Garibaldi. La conquista del Sud è operazione decisa a tavolino, sul piano diplomatico, mediante accordi con la Francia e la Gran Bretagna (che voleva i Borboni fuori dall’Italia e, soprattutto, la marina mercantile dei Borboni fuori dalle balle), realizzata  mediante una diffusa corruzione dei vertici militari dell’esercito borbonico, mediante promesse a signorotti e nobili locali e mediante accordi con la Mafia.
Fin da quando facevo le medie la storiella mi sembrava difficile da accettare: Garibaldi parte con 1000 disperati (ai patrioti idealisti erano mescolati molti delinquenti comuni o avventurieri prezzolati, lo sapevate?) e in pochi mesi ha ragione di un esercito di 100.000 uomini… Grazie a cosa? Alla “sollevazione popolare”? Ma se molte popolazioni si sono sollevate CONTRO i garibaldini! E come mai la marina Borbonica, una delle più potenti del mondo, si consegna al nemico quasi senza sparare? E come mai i reggimenti  borbonici, quando ingaggiano battaglia con le disorganizzate truppe garibaldine, in molti casi (sono state davvero poche le battaglie “vere”, inutile prendersi in giro), dopo pochi, formali, scambi di fucileria, si arrendono? Perché reggimenti di migliaia di soldati depongono le armi davanti a poche centinaia di “guerriglieri” male armati in camicia rossa?
Ma vi pare? E’ chiaro che i generali borbonici hanno venduto i loro reparti (pare gli fossero state promesse somme favolose che però poi, in molti casi, non furono pagate!).
La cosa, però, che più fa accapponare la pelle è scoprire cosa hanno combinato le truppe Piemontesi, subito dopo l’Unità d’Italia, in quei paesi del Sud che hanno provato a ribellarsi. Perché, anche se i libri di storia non lo raccontano, sono successe cose atroci, incredibili. E non in pochi casi eccezionali, ma in modo diffuso e sistematico. Una quantità impressionante di morti. Paesi rasi al suolo, fucilazioni sommarie, stupri (non sono mica un’invenzione recente!), deportazioni, prigionia. Fino ai campi di concentramento. Sissignore. Furono istituiti veri e propri campi di concentramento al nord dove furono deportati migliaia di prigionieri, dissidenti, ex soldati borbonici.
Non sono farneticazioni. Magari lo fossero! Leggete TERRONI, leggete i testi da cui Aprile trae le sue notizie.
E i passi che impressionano di più sono le testimonianze, tratte da corrispondenze private o da interrogazioni parlamentari, degli uomini che avevano fatto l’Unità d’Italia, da cui traspare tutto lo sconcerto e talvolta quasi il “pentimento” per quello che avevano contribuito a realizzare. Perché in quegli anni i soprusi e gli orrori erano sotto gli occhi di tutti e lasciavano sgomenti.
Dov’erano nel 1860 i più grandi arsenali d’Italia? Al Sud. Dov’era l’unico insediamento industriale siderurgico moderno ed evoluto, capace di fare concorrenza agli inglesi? In Calabria. Qual era la città più importante d’Europa per la produzione di olio vegetale lubrificante (all’epoca veniva usato quello nella nascente industria, non ancora gli oli fossili e minerali), forse una città del nord? No. Era Gallipoli, dove c’era anche la borsa in cui venivano fissati i prezzi dell’olio industriale a livello mondiale.
Sono solo esempi. Per dire che il Regno delle Due Sicilie aveva una realtà economica che nulla aveva da invidiare a quella del nord. E cosa resta di questa capacità imprenditoriale e produttiva dopo pochi anni dall’arrivo degli invasori piemontesi/lombardi? Quasi niente. Gli insediamenti produttivi più importanti vengono chiusi e smantellati e, per quanto riguarda l’agricoltura, viene negata ai contadini la tradizionale possibilità (concessa dai Borboni) di coltivare le terre demaniali incolte. Che finiscono nelle mani di grandi latifondisti. Riducendo la gente alla fame.
Tutte le risorse devono andare al nord. Tutti i vantaggi competitivi devono essere del nord. Il sud deve essere messo in condizione di non nuocere, deve smettere di essere un (temibile) “concorrente” e diventare solo un mercato. Mercato di acquirenti per le merci del nord e mercato di braccia a basso costo per le fabbriche del nord.
E così è, per molti versi, ancora oggi.
Dove si sono costruite in prevalenza strade, infrastrutture, scuole e tutto quanto serve come presupposto per crescere dal punto di vista economico? Molto al nord. Poco al sud (quando proprio non si è potuto fare a meno…).
E al sud? Al sud si è preferito concedere interventi assistenziali, “gocce” di carità che servono a tenere buona la gente, a farla sopravvivere (evitando che si ribelli e vada in piazza coi forconi) in condizione di sudditanza, con la sensazione che non vi sia alternativa e che “nulla possa cambiare”.
Ci si guarda bene da dare al sud gli strumenti per camminare con le proprie gambe (non sia mai che ci riesca davvero!); gli si danno soprattutto sussidi, pensioni di invalidità, impieghi nelle pubbliche amministrazioni (serbatoi di voti al momento delle elezioni). Insomma gli si fa l’elemosina. Salvo poi insultarlo e colpevolizzarlo per quella stessa elemosina che serve a tenerlo in sudditanza.
E la tanto demonizzata Cassa del Mezzogiorno, chiusa quasi con ignominia, dipinta come “la madre di tutti gli sprechi”? Sono rimasto a bocca aperta nel leggere a quale percentuale del PIL del paese corrispondeva: appena lo 0,5% annuo! E molti dei soldi teoricamente spesi al sud finivano, in realtà, nelle casse di aziende del nord che avevano in appalto i lavori da realizzare al sud.
Sicuramente parte dei soldi saranno stati spesi male, ma negli stessi anni alle regioni del nord andavano, sotto forma di rimesse ordinarie e di investimenti per infrastrutture di tutti i tipi, somme enormemente maggiori, tali da far impallidire i “miliardi” spesi al sud. Le rimesse ordinarie alle regioni del nord non si vedevano (ma venivano incamerate con gran soddisfazione), le rimesse “straordinarie” riversate nella Cassa del Mezzogiorno”, invece, venivano sbandierate a gran voce (specie in periodo elettorale), anche se a ben vedere, non pareggiavano minimamente lo squilibrio di risorse riservate alle regioni del nord.
L’Italia è forse il paese europeo che ha scavato in modo più netto, mediante 150 di sfruttamento sistematico del suo meridione, un solco amplissimo al suo interno, dando vita nei fatti a due nazioni diverse che convivono nello stesso territorio. Mentre altri stati dell’Unione Europea si sono sforzati in qualche modo di colmare il divario tra le loro zone più sviluppate e quelle meno sviluppate, l’Italia si è mossa in direzione contraria, togliendo risorse, dirottandole dalle zone povere a quelle ricche, anziché viceversa.
Dopo la caduta del muro di Berlino la Germania dell’Ovest si è trovata riunita a quella dell’Est, mostruosamente più arretrata. Cosa hanno fatto i tedeschi? Hanno lasciato l’Est al suo destino? No, hanno investito un mare di soldi (dell’ovest), creando infrastrutture, ospedali, strade, ferrovie, scuole. Risultato? Nel giro di 20 anni di sforzi importanti il divario si è quasi annullato e la Germania è diventata, complessivamente, ovest più est, il paese economicamente più forte d'Europa.
Chi è, invece, che oggi affonda, anche e soprattutto perché la sua parte meridionale non è stata messa in grado di svilupparsi e di progredire? Chi è stato intelligente e chi miope, in modo autolesionista?
Di più: l’Italia è il paese europeo che più di ogni altro ha elevato il razzismo a ideologia politica, con la nascita e il successo della Lega Nord, il soggetto che più di ogni altro si permette di insultare la storia e di mentire spudoratamente su quello che è successo in questo paese. La Lega, ripetendo all’infinito, come un mantra, una serie di idee preconcette (che i fatti dimostrano false!), ha consolidato il convincimento che fossero vere.
Negli altri paesi le formazioni politiche di ispirazione razzista vengono temute ed emarginate. Da noi vanno al Governo!
E’ lo stesso meccanismo che usa Berlusconi, applicato al razzismo. Ripetere all’infinito, in ogni occasione, su giornali e tv, in discorsi pubblici e interviste, un’interpretazione della realtà falsata e funzionale ai propri scopi, che per il fatto stesso di essere “data per scontata”, finisce per “sembrare” vera.
Così 150 anni di affermazioni false hanno finito per convincere non solo la gente del nord (per lo meno quella più ignorante) ma, quel che è più grave, anche la gente del sud. Che ha cominciato a “percepirsi” come meno capace, meno importante, perdendo la piena consapevolezza di quanto sia stata sistematicamente sfruttata e schiacciata, se non addirittura derubata nel corso dei decenni. Ha cominciato a convincersi che davvero sia “colpa sua” se non sa produrre e progredire (produrre con cosa, se i mezzi a disposizione sono una frazione di quelli a disposizione degli imprenditori del nord? Eppure alcuni ci riescono lo stesso!). Gente del sud che ha perso persino il ricordo di avere alle spalle una civiltà straordinaria e una storia, anche economica, superiore alla storia delle regioni del nord, che beneficiano di condizioni enormemente più favorevoli, createsi tutte in tempi relativamente recenti, a partire dall’Unità d’Italia.
Ma lo sanno gli “amici” della Lega Nord, che prima dell’Unità il Piemonte e la Lombardia venivano sprezzantemente considerate dall’Impero Austro Ungarico come il sud sporco, incapace e fannullone del loro efficiente impero, abitato da gente da cui era inutile aspettarsi qualcosa, perché “geneticamente” incapace? Esattamente come oggi molti lombardi etichettano i calabresi.
Ha ragione De Crescenzo quando scrive che: “si è sempre meridionali di qualcuno!”
Fate un favore a voi stessi: leggete TERRONI. Forse non è un libro straordinario dal punto di vista squisitamente “letterario” (in tutta sincerità lo stile di Aprile non mi piace, potrebbe essere molto più stringato ed efficace), allo stesso modo in cui forse non è un gran libro, letterariamente parlando, neppure “Gomorra”, di Roberto Saviano.
Eppure sono libri irrinunciabili se vogliamo capire qualcosa della realtà che ci circonda.
Ripeto, non in quanto settentrionali o meridionali: ma in quanto italiani.
Se poi non vi frega niente di capire … buon facebook a tutti!

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"Si è sempre meridionali di qualcuno!" (Luciano De Crescenzo)

mercoledì 30 gennaio 2013

L'EDITOR MANNARO

Ne ho sempre avuto paura. Una specie di sacro terrore.
Ognuno di noi ha le sue idiosincrasie. C’è chi ha paura dei ragni, chi dei topi, chi degli spazi aperti, chi degli spazi chiusi, chi delle suore al volante, chi delle nuvole a forma di drago, chi del dentista, chi dell’estratto conto della carta di credito (quest’ultima, in particolare, è una paura molto diffusa…).
Io avevo paura degli editor.
Lo sapete chi sono, no? Sono quelli che lavorano per le case editrici e prendono in consegna il libro di uno scrittore per rivoltarlo come un calzino e trovare tutti i difetti. Sono quelli che decidono cosa funziona e cosa non funziona, quali cambiamenti vanno fatti.
In pratica quelli che danzano allegramente sul cadavere del tuo romanzo sventrato. Così li ho sempre visti io.
Non lo so se alla base di questo terrore ci sia qualche trauma della mia infanzia che ho rimosso dalla memoria; per esempio una vecchia zia che a quattro anni mi minacciava con frasi del tipo: “se non mangi tutto il minestrone viene l’editor nero e ti porta via”! O qualche inenarrabile episodio in cui, alle elementari, un editor perverso è penetrato nella scuola per seviziare un mio tema dall’originalissimo titolo: “Cosa hai fatto durante le vacanze?” (perché generazioni di maestre sono da sempre curiose di sapere che cacchio fanno i bambini durante le vacanze? Cercano consigli? Non hanno fantasia e non sanno dove trascorrere le loro ferie?).
Fatto sta che quando scrivevo solo per me stesso, prima di impazzire e cominciare a cercare un editore, evitavo anche solo di pensare all’eventualità di sottoporre i miei romanzi a un editor. La sola idea mi metteva angoscia. Più o meno come il pensiero di affidare mio figlio piccolo a un baby sitter di nome Hannibal Lecter (“…vada pure al cinema tranquillo… accudirò suo figlio come fosse una prochetta…”).
Pensare alle loro lunghe dita adunche che voltano le pagine del mio manoscritto, alle loro penne rosse (che immaginavo cariche del sangue innocente degli esordienti respinti…) che sottolineano brutalmente ed eliminano interi capitoli, ai loro occhi cisposi e corrucciati che scorrono la trama che tanto lavoro mi è costata, col sarcastico distacco di un vecchio patologo arrivato alla sua millesima autopsia, mi toglieva il sonno.
Così quel famoso pomeriggio in cui arrivò la mail di quel matto del mio editore che diceva che il mio romanzo era buono e che se fossi stato disponibile a lavorarci ancora un po’ poteva essere preso in considerazione, mi sono sentito insieme elettrizzato e terrorizzato.
Una pubblicazione? Una vera? Cioè proprio un libro col mio nome sopra? Cioè proprio che non lo dovevo pagare (profumatamente) io, ma lo stampavano e lo distribuivano loro?
E però… quella frase sibillina e minacciosa…
Cosa intendevano dicendo che avrei dovuto rendermi disponibile ad alcune modifiche?
Lame affilate e uncini acuminati? Pagine sventrate, lasciate agonizzare sul ripiano di sudicie scrivanie? Frasi amputate e aggettivi ferocemente soppressi? Avverbi desaparecidos di cui nessuno avrà mai più notizia? Citazioni sepolte vive? Digressioni seviziate? Nomi dei personaggi geneticamente modificati?
Ero pronto? Davvero ero disposto a chiudere gli occhi davanti a quello scempio pur di fregiarmi dell’aggettivo “scrittore”? Perché gli editori non prospettavano baratti più facili e meno dolorosi, tipo cedergli in comodato una sorella o gambizzare qualche loro debitore?
Ansia e batticuore.
Scrivigli, mi ripetevo. Scrivigli e digli che sei pronto a tutto, che si può sicuramente discutere eventuali modifiche del testo. Tanto: che ci perdi? Bluffa, vai a “vedere” le loro carte e se poi per pubblicarti pretendono di massacrarti il romanzo puoi sempre tirarti indietro. Mica te li stai sposando! Puoi sempre scappare a gambe levate. In fondo è una casa editrice del nord, sono lontani, costa troppo venire fino qui a prenderti a schiaffi per il tempo che gli hai fatto perdere. Sei al sicuro.
Così ho scritto. Ho risposto alla mail, indugiando a lungo col dito sul pulsante del mouse e poi…
Clic! Mail partita.
Ecco fatto. Ecco fatto? Ossignùr cosa ho fatto!!!
Mi sono venduto l’anima alla macchina succhiasangue dell’editoria?
Ed è cominciata l’attesa. La terribile attesa. L’attesa dell’incontro con l’editor mannaro!
Ancora ricordo la prima telefonata…
<Papà c’è uno della ***** che ti cerca…> mi ha annunciato uno dei miei figli, tenendo in mano il cordless, storpiando il nome della casa editrice.
Convinto che si trattasse di telemarketing stavo per rispondergli di dire che non c’ero, che ero emigrato in Groenlandia, ma poi ho avuto un momento di lucidità e ho capito di cosa si trattava.
Sudore gelato lungo la spina dorsale.
<Dammi qua…> ho mormorato prendendo il dannato cordless e portandolo all’orecchio con mano tremante.
<Pronto?...> ho trillato con voce incerta, un paio di ottave sopra il mio tono abituale. Devo essere sembrato una voce bianca in fase di riscaldamento prima di un concerto.
<Buongiorno, sono S. della *******>
Ma come? L’editor mannaro non aveva la voce cavernosa? Non sospirava al telefono come un maniaco? Non si sentiva rumore sinistro di pagine lacerate in sottofondo? La voce sembrava invece quella di uno dei compagni di scuola di mio figlio. Una vocina sorridente (sì, sì, le voci possono essere sorridenti, avete notato? Se dall’altra parte della linea telefonica l’altra persona sorride si “sente”, si percepisce. Questa cosa la insegnano nei corsi di vendita telefonica. Solo che poi, a furia di farsi sbattere il telefono in faccia per poche centinaia di euro al mese, gli addetti ai call center se lo dimenticano in fretta questo suggerimento…), una voce da ragazzino.
Dov’era il trucco? Avevano una macchina che altera la voce? Uno strumento per ipnotizzare a distanza? Ero già in loro potere e neppure me ne rendevo conto? Era l’invasione degli ultracorpi? La notte mi sarei ritrovato chiuso in un baccello e la mattina dopo ne sarei uscito coperto di bava verde, trasformato in uno scrittore-pollo-da-batteria pronto a dire e firmare tutto quello che volevano? Sarei stato persino disposto a comprarmi (orrore!) una giacca di velluto con le toppe di camoscio ai gomiti e un cappello?
< Ha qualche minuto? Le volevo parlare del romanzo!>
<Ehm… sì… beh sì… certo…>
Inutile rimandare, prima o poi bisognava pure affrontarlo. Oppure scappare davvero in Groenlandia. Che poi… si vivrà così male in Groenlandia? Cioè non è che sia molto popolata, ma qualcuno ci vive, no? Però magari ci vive perché non può venire via e, se potesse, col cavolo che vivrebbe in Groenlandia!
Basta! Come mio solito stavo divagando: in questi casi la mia mente gira per i fatti suoi e io perdo lo scorrere della realtà intorno a me.
Mi sono imposto di concentrami.
Ho ascoltato e, senza rendermene conto, come una confezione di surgelati tirata fuori dal freezer, lentamente ho cominciato a sciogliermi, mi sono rilassato, mi sono messo persino a sedere (all’inizio ero rimasto in piedi, rigido, soldatino sull’attenti al centro della stanza).
Niente uncini, niente forbici, niente ordini abbaiati con tono duro, magari in tedesco, come nei film sui campi di concentramento, niente “devi”, niente “tagliamo”, niente “eliminiamo”, niente “lasci fare a noi” seguito da minacciose risatine di sottofondo.
S*** con la sua voce da ragazzino ha cominciato a parlarmi di trama, di sviluppi della storia, di coerenza, di possibili miglioramenti da apportare. E le cose di cui mi parlava avevano un senso, suonavano bene.
Sì, effettivamente anch’io avevo delle perplessità su quel passaggio, non mi convinceva fino in fondo. Sì, anch’io mi chiedevo se quel personaggio non fosse un po’ troppo debole. No, non avevo pensato che forse questo retroscena andava spiegato meglio ma, adesso che me lo faceva notare…
Soprattutto mi sono reso conto che il lavoro di riscrittura sarebbe rimasto tutto e solo mio. Che avrei conservato il controllo del testo. Questa (faticosa) consapevolezza mi ha definitivamente tranquillizzato. Insomma: avremmo discusso insieme e poi io mi sarei messo al lavoro.
<Va bene, mi fa piacere avere avuto questa prima chiacchierata. La richiamerò a breve e vediamo di cominciare a lavorare il prima possibile>
<D’accordo. Aspetto la sua telefonata!>
Sono rimasto lì col cordless in mano per un paio di minuti, a riflettere sulle cose che mi aveva detto. Effettivamente aveva beccato un paio di punti deboli del romanzo. Del resto sapevo che c’erano (ci sono sempre). Ricordo che avrei voluto precipitarmi al PC e cominciare immediatamente a riscrivere. Che avrei voluto che avessimo già deciso una serie di cose. Che avrei voluto…
Improvvisamente realizzai che era passata. Era scomparsa. Non c’era più.
Ero guarito!
Era bastata una telefonata.
E io non avevo più paura dell’editor mannaro...


P. S.
Al di là del racconto, chiaramente “romanzato”, nella realtà ho avuto occasione di collaborare con tre diversi editor ai tre romanzi che fino a ora ho pubblicato.
Sono state esperienze differenti, che hanno comportato una mole di lavoro diversa; in un caso abbiamo deciso delle modifiche alla trama, con l’aggiunta di due nuovi capitoli, che ho scritto per l’occasione; negli altri due casi gli interventi sono stati più contenuti e limitati a delle migliorie al testo.
Posso dire che si è trattato, comunque, sempre di esperienze sostanzialmente positive.
Il confronto con un professionista portatore di un punto di vista “terzo” rispetto al testo è stato fruttuoso e ha consentito al romanzo di guadagnare qualcosa. Uno dei punti di debolezza delle auto-pubblicazioni, o della pubblicazione con case editrici poco serie, infatti, resta questo: la mancanza del confronto con un bravo editor che consente allo scrittore di recuperare quello sguardo esterno, da “lettore” che è fondamentale per individuare alcuni difetti (talvolta minimi, talvolta invece eclatanti), che l’autore, troppo immerso nella sua opera, non riesce più a vedere.



PALLOTTOLE D'ARGENTO DA USARE CONTRO GLI "EDITOR MANNARI"